Quando arrivai a La Maddalena, tanti anni fa, una delle cose che, un po’ strane per me, fu quella di ‘scoprire’ il Club Méditeranée. Arrivavo da Roma, eppure quel tipo di resort era una novità assoluta. Almeno per chi, come me, era figlio di una famiglia molto piccolo borghese: mamma operaia, io diplomato da qualche anno, due sorelle più piccole ancora nel nido. Roma aveva pregi immensamente superiori ad una piccola, seppur laboriosa, cittadina di provincia, ma questa aveva qualcosa che io avevo visto solo sui giornali di cronaca rosa. E per un ragazzo di 23 anni quella struttura immersa fra la natura di un’isola incantata era una favola. Inutile nascondersi dietro le chiacchiere: quel po’ po’ di belle ragazze dall’erre moscia erano un’attrazione irresistibile. Quei tucul, quel modo di vivere la vacanza all’aria aperta, quelle feste – oggi forse da ritenere démodées, ma non allora – quel soggiornare senza le comodità di una modernità già abbastanza assillante, non solo erano una novità, ma anche un esempio da seguire. A molti amici, a Roma, che d’estate andavano a soffocare nel carnaio di Ostia raccomandavo con un certo orgoglio: “Ragazzi, ma venite a La Maddalena. Lì, a confronto, c’è il paradiso! C’è lavoro per tutti!”. Qualcuno venne. Quello che però mi colpì fu la constatazione che tanti e tanti uomini e ragazzi vi lavoravano, vi guadagnavano uno stipendio. E mi pareva incredibile che giovani di 15/20 anni vi trovassero lavoro d’estate nelle varie attività connesse con l’arte del divertimento! Credetemi, il mio pensiero andava costantemente al ricordo dei miei tanti parenti coetanei che nelle stesse estati dovevano andare a cavar patate o raccogliere fragole, oppure portare al pascolo armenti e coltivare la terra. Era un paragone che faceva male: loro restavano a bocca aperta quando lo raccontavo. Invidiavo i giovani maddalenini perché mi rendevo conto che oltre a fare dei lavori non pesanti e percepire un regolare stipendio, vivevano in mezzo a gente proveniente a fuori dell’Isola, di cui, volendo, potevano imparare un sacco di cose, starci assieme e conoscersi, parlare e imparare lingue, conoscere il loro modo di vivere, ma anche prendere coscienza di come si gestisce una struttura turistica, di come si tratta con gente di varia astrazione, di come si deve lavorare in gruppo per soddisfare mille esigenze quotidiane. Il tutto immerso in uno scenario ambientale di straordinaria bellezza. E’ chiaro che forzai la mano perché, proprio nell’estate del 1971 per la prima volta, potessi entrare in quell’eden di divertimento. Ci riuscii, qualche volta, con la complicità di amici che ancora se lo ricordano e riuscii a conquistarmi anche qualche flirt. Quando a fine agosto il suo gruppo se ne andò nella piattaforma dei balli intonarono quella specie di ritornello bene augurante e triste allo stesso tempo che faceva ballare tutti: “… tu reviendras à Caprera!’. Ho aspettato l’ anno appresso, ma lei non venne, e nemmeno nei seguenti. Chissà dove sarà ora, e chissà se sarà a conoscenza quella festa colorata di sofferti arrivederci, molto simili agli addii, ne reviendra jamais!.
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