Carissimo Antonello,
ho letto con attenzione la lettera inviata dal Sig.Chicco Tirotto, del quale ignoro occupazione e appartenenza politica, ma che come spesso accade con il suo scritto ha detto solo una parziale verità contribuendo a fare a sua volta disinformazione, insomma il classico bue che dice cornuto all’asino, andiamo ad analizzare le sue affermazioni:
Quando afferma “Non esiste un solo documento politico e neanche un intervento nel dibattito politico in corso in cui la maggioranza abbia espresso una volontà politica in tale direzione. E’ falso e chi dice il contrario racconta le bugie.” A chi si riferisce? Se si riferisce alla Regione posso produrre registrazioni nelle quali l’assessore Deiana, in uno degli incontri con me avuti, ha sempre affermato di voler privatizzare tutti i trasporti in Sardegna pertanto non solo Saremar ma anche Arst,
in questo caso chi è il bugiardo? Se si riferisce ai Comuni e meglio che stendiamo un velo pietoso.
Non corrisponde al vero neanche quanto affermato, che c’era l’obbligo della privatizzazione, infatti nell’accordo stato Regione si affermava il principio che la regione non poteva detenere tutto il pacchetto azionario di Saremar, le mie affermazioni sono confermate dalle Deliberazioni della Regione n. 42/16 del 15/09/2009, n. 46/22 del 13/10/2009, n. 51/29 del 17/11/2009, n. 19/49 del 12/05/2010 e n. 28/23 del 21/07/2010 dove si parla sempre e solo di privatizzare il 51% del capitale Saremar. Improvvisamente nella seduta del 07/08/2012, Presidente Cappellaci, Assessore ai Trasporti Solinas (Partito Sardo D’azione), consulente Prof. Deiana (attuale assessore), viene decisa, con scelta politica, la privatizzazione al 100% di Saremar, secondo il Sig. Tirotto di chi sono le responsabilità di questa scelta?
Saltando tutte le elucubrazioni sulle normative comunitarie, che nessuno ha mai contestato ma che poco hanno a che vedere con il nostro caso, accludo a seguire alcune considerazioni contenute nella Risoluzione – Interrogazione presentata alla camera il 04/03/2014 dal Deputato M. Pili, che inviterei il Sig. Tirotto a leggere, che affermano quanto segue:
La Commissione europea, D.G. Energia e Trasporti, nella lettera prot. n. D (2009) 75213 del 21/12/2009, indirizzata alle autorità italiane nel quadro della procedura di infrazione n. 2007/4609, con riferimento al percorso di privatizzazione definito nel D.L. n. 135 del 25/09/2009, ha precisato, altresì, che ai fini dell’applicazione del regolamento 3577/92 sul cabotaggio marittimo è del tutto irrilevante che gli operatori del servizio pubblico siano pubblici o privati.
La Commissione Europea, nella lettera del dicembre 2009 ha affermato che, se le regioni effettuano il servizio “in house” ai sensi della sentenza Anav della Corte di giustizia (C-410/04) e tutti i relativi requisiti sono rispettati, il regolamento 3577/92 può considerarsi correttamente applicato.
Come si può facilmente evincere il fatto di creare una affiliata Arst o una società in house dedicata non mi sembra sia proprio un “cazzata”, ma una cosa seria in cui tutti dobbiamo credere costringendo l’assessore Deiana a rivedere le sue teorie che non trovano riscontro con il territorio.
Cordiali saluti
Il Presidente Comitato Continuità Territoriale Isole Minori
Pierpaolo Bruscu
Dal Sole 24 ore
Con l’esclusione dal fallimento deficit da ripiana-re
di Davide Di Russo –
Le società pubbliche (intese come società a capitale e patrimonio pubblico, e finalità di interesse generale) sono soggette allo statuto dell’imprenditore commerciale e dunque, in caso di insolvenza, al fallimento. Al l’opposto, è estranea al l’area della fallibilità la “specie” delle società pubbliche in house, in quanto mere articolazioni degli enti pubblici soci, rispetto ai quali non sussiste alcuna al-terità soggettiva. Questa è la conclusione che sembra emergere dall’affermazione della giurisdizione della Corte dei conti sul l’azione di responsabilità nei confronti degli organi di una società in house (sentenza 26283/2013 delle Sezioni unite della Cassazione).
Le società in house si caratterizzano perché a capitale interamente pubblico in forza di previsione statutaria, oltre che soggette a un controllo dell’ente socio analogo a quello che questo esercita sui propri servizi: il consiglio di amministrazione è svuotato di significativi poteri gestionali, ed è mero esecutore delle determinazioni della governance degli enti soci, a cui spettano poteri più incisivi di quelli di norma riconosciuti dal diritto societario alla maggioranza sociale (così che le decisioni più importanti della società sono preventivamente sottoposte all’esame e all’approvazione del socio pubblico).
Le società in house inoltre sono immuni da qualsiasi vocazione commerciale, perché si riducono a una sorta di longa manus dell’amministrazione socia, la quale reperisce prestazioni a contenuto negoziale non sul mercato, ma al proprio interno, appunto perché si serve di un proprio ente stru-mentale (la società in house) giuridicamente distinto sul solo piano formale, in deroga ai principi di concorrenza.
Le in house hanno soltanto la forma esteriore di una società, secondo le Sezioni unite, ma sono null’altro che un’articolazione della pubblica amministrazione da cui promanano e non si configu-rano quali soggetti giuridici autonomi ed esterni: l’uso del vocabolo società indica solo che in difetto di più specifiche opposte disposizioni, opera il paradigma organizzativo societario, non anche un soggetto giuridico autonomo titolare di un interesse proprio; come da tempo affermato dalla giuri-sprudenza amministrativa, «l’ente in house non può ritenersi terzo rispetto all’amministrazione con-trollante ma si deve considerare come uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa» (Consiglio di Stato, adunanza plenaria, 1/2008).
Data l’immedesimazione tra ente pubblico socio e società in house, non può che derivare, quale lo-gica conseguenza, non solo la giurisdizione della Corte dei conti nell’azione sociale di responsabilità per danni al patrimonio societario (da considerarsi pregiudizio al patrimonio dell’ente pubblico socio) ma anche e soprattutto la sottrazione (che ancora le Sezioni unite non affermano espressa-mente) della società in house al fallimento, in quanto l’articolo 1 della legge fallimentare (Rd 267/1942) esclude gli enti pubblici dal perimetro dei soggetti fallibili.
Pertanto, i debiti della società in house vanno considerati debiti dell’ente socio, il quale non potrà “scaricarli”, in caso di insostenibilità, sul ceto creditorio, sapendo che dovrà provvedere alla co-pertura del deficit della società insolvente in misura proporzionale alla propria partecipazione. Il tutto con ripercussioni finanziarie sull’ente socio e con gli intuibili rischi di dissesto per quest’ultimo, connessi all’assunzione dei debiti della partecipata in house e, in ultima istanza, del l’obbligo di provvedere al relativo adempimento.
Il venir meno della distinzione soggettiva tra ente e società in house pone anche la questione di un eventuale ripensamento dell’assetto normativo che impone la gestione di servizi pubblici tramite società di capitali (articolo 35, comma 8, della legge 448/2001, sopravvissuto al referendum 2011). Il ricorso a una forma organizzativa caratterizzata dallo scopo di lucro, oltre che incompatibile con finalità pubbliche, spesso si è tradotto nella violazione di logiche di mercato (con incremento espo-nenziale dei costi di gestione, in primis per personale), e nella conseguente lievitazione sia delle ta-riffe a carico della collettività che degli oneri a carico degli enti pubblici, fino al non infrequente dissesto della società (si veda Corte dei conti Calabria, 84/2012).
Commercialista e componente
del comitato scientifico Igs
I commenti sono disabilitati